Descrizione
La "Fabbrica" della nuova parrocchiale - parte quarta.
Gli altari del Santissimo Sacramento e del Santo Rosario.
Rispetto all’altare delle Sante Reliquie, diversa è la situazione degli altari del Santissimo Sacramento e del Santo Rosario. Di essi non vi è cenno di spesa nel Libro del Massaro perché, con molta probabilità, furono edificati con i denari della loro dotazione.
La dotazione degli altari si costruisce con lasciti testamentari.
Il testatore dispone - con quelli che sono definiti legati pro anima - che una parte della propria eredità sia data a un determinato altare per la celebrazione di un certo numero di messe «in remedio dell’anima [sua] e di quella dei defunti della [sua] famiglia».
Il legato era, in genere, di tre tipi.
Il lascito una tantum: era specificato che la somma - in genere di piccola entità - era data «per una volta sola». In questo caso, solitamente, erano lasciate piccole somme a ogni altare di tutte le chiese del territorio senza specificare l’utilizzo futuro del denaro.
Lo juspatronato si costituiva quando il testatore, vincolando una somma consistente, indicava il nome del sacerdote che ne beneficiava o disponeva che fossero i Reggenti dell’altare a farlo. Ogni messa era pagata con gli interessi maturati sul capitale (che non era mai intaccato) che creava il Beneficio - o una parte - di quel sacerdote.
Infine, il testatore poteva lasciare in eredità proprietà immobili, terreni o case, dal cui affitto si traevano i denari necessari alla celebrazione delle messe e al sostentamento dell’altare (cera, paramenti, etc.).
Nei casi di juspatronato e di legati immobiliari l’Altare, ovvero i suoi Reggenti (gli amministratori del capitale), esercitava le funzioni di banca - tramite il censo - prestando il denaro del capitale all’interesse annuo, a Marone, che variava dal 5 al 3%; oppure, affittando i terreni, allo stesso interesse dal 3 al 5% annuo, ai contadini.
1. L’altare del Santo Rosario
Dal 1645 l’altare del Rosario è sede dello juspatronato Ghitti di Bagnadore , il cui capitale originario è di 3500 lire, di cui 1450 lire per acquisto di paramenti e 2050 per la celebrazione di messe. Lo juspatronato è confermato e rifinanziato alle stesse condizioni nel 1708 da Antonio q. Giovanni Pietro e nel 1755 da Antonio q. Antonio. Dello juspatronato Ghitti beneficia in resignazione il parroco, mentre le messe dei restanti legati (quattro messe la settimana) sono celebrate da don Ventura Almici .
Nel 1641 la Scuola del Rosario è proprietaria di un appezzamento di 31 tavole del valore di 40 lire e sei soldi ma, soprattutto, godendo della rendita di almeno tre legati che gli rendono 23 lire e 18 soldi l’anno, può prestare «a Battista e Vellio Abbati da Iseo» 400 lire planette da cui riscuote l’interesse annuo.
È l’inizio di un’intensa attività feneratizia che si protrarrà fino a tutto il XVIII secolo.
Nel 1656 (visita Ottoboni) l’altare ha una rendita di circa 60 scudi data da capitali censuari e livellari; il cappellano, Ludovico Guerini celebra 3 messe settimanali «per legati di diverse persone» .
Il 22 novembre del 1700 la Scuola del Rosario «affitta» 5 appezzamenti di terreno del valore complessivo di 2687 lire e 6 soldi.
La Congregazione del Rosario, dal 1650 in poi, utilizza gran parte dei legati per attività feneratizia: nel Settecento presta denaro a privati e a enti, tra cui alla Vicinia di Vesto per costruire la chiesa e al Comune di Marone, disponendo di un capitale censuario di 24106 lire, con 43 contratti che fruttano 905 lire e 14 soldi all’anno .L’altare delle del Santo Rosario è interamente a stucco con decorazioni – nel paliotto, nel gradino e nelle quattro colonne che sostengono il monumentale timpano - che simulano il marmo screziato di varie sfumature di grigio scuro. Ai lati delle colonne vi sono 15 ovali con i Misteri del Rosario, opera di Sante Cattaneo (l’ultimo in basso a destra è opera recente, dopo un furto sacrilego).
Nella nicchia centrale vi è la statua della Madonna di Lourdes, ma la pala originaria è quella di Pompeo Ghitti [1633-1703] e raffigura La Madonna con Bambino in trono, olio su tela di cm. 200 x 115 circa.
Sia l’altare del Santo Rosario che quello del Santissimo Sacramento sono stilisticamente simili a quello delle Sante Reliquie per cui ritengo che progettista e realizzatore dei tre altari sia sempre lo stesso, cioè Giovanni Cetti, padre del più famoso Pietro Antonio.
Madonna col Bambino in trono
L’immagine sacra che sembrerebbe a priva vista richiamare la fissità di un’antica icona, si anima per i panneggi sapientemente costruiti sulle larghe forme, per la leggera inclinazione del capo della Vergine, per l’espressione assorta dei volti larghi e un po’ torpidi, dalle palpebre semichiuse.
La pala e stata di recente da me riconosciuta come opera del pittore Pompeo Ghitti, per il quale è da confermare l’origine maronese, grazie al rinvenimento, ad opera di Roberto Predali che in questo volume lo riproduce, dell’atto del battesimo, avvenuto in Marone 6 novembre 1633.
Allievo in patria di Ottavio Amigoni, col quale collabora nel 1656 negli affreschi del salone cosiddetto “della congiura” di Palazzo Averoldi Togni di Navezze di Gussago, si trasferisce, probabilmente nella seconda metà degli anni Cinquanta, a Milano, nella bottega di Giovan Battista Discepoli, lo Zoppo da Lugano, per poi rientrare e lavorare a lungo per i territori di Bergamo e Brescia. E, in effetti, il suo stile non può definirsi propriamente “bresciano”, ma appare più cosmopolita, influenzato com’è dalla cultura figurativa milanese degli stessi anni, dello Zoppo, appunto, o del perugino Luigi Scaramuccia lì attivo o, ancora, del modello fornito negli stessi anni dall’attività di Antonio Maria Viani, attivo a Mantova e a Cremona intorno alla metà del secolo.
Condividendo l’attribuzione, Angelo Loda, che a questo artista ha dedicato un fondamentale saggio monografico (A. Loda, Un bilancio per Pompeo Ghitti, artista bresciano del Seicento, in ACME Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università statale di Milano, vol. LIV, fasc. I, gennaio-aprile 2001 pp. 85-129) ha proposto, in una comunicazione orale presentata a Sale Marasino il 10 maggio 2008, una datazione relativamente precoce. Dovremmo essere, considerati i toni argentei che caratterizzano il dipinto e che verranno successivamente abbandonati dal Ghitti, alla fine degli anni Settanta, in contiguità con le numerose opere lasciate dal pittore nella parrocchiale di San Zenone a Sale Marasino (si veda in merito Loda cit., pp. 93, 94, figg. 3, 5, 6, e F. Frisoni, Le pale d’altare, in Storia ed arte nella chiesa di San Zenone a Sale Marasino, Marone, 2007, pp. 89-112) .
I Misteri del Rosario di Sante Cattaneo
L’altare del Santissimo Sacramento.
Nel 1567[1], quando «non vi sono né cappellanie datate né chiericate», l’altare del Santissimo Sacramento è curato dall’omonima Congregazione che, tramite il proprio massaro, lo amministra «malamente».
Nel 1573, visita Pilati, «la Scuola non ha alcun bene se non elemosine. Ha circa 140 confratelli che pagano 3 soldi ogni anno che alcuni pagano e altri no. Si spende il sopraddetto reddito in cere per accompagnare le processioni del Corpus Domini e agli ammalati. [I membri della Corporazione] fanno cantare una messa ogni seconda domenica del mese e il giorno successivo si celebra una messa con responsorio per i defunti, dando elemosina al sacerdote celebrante. Hanno le loro regole e i loro reggenti. Fanno un bilancio annuale, governano bene la Scuola». Sempre nello stesso anno la «Congregazione del Santissimo Sacramento […] non ha un regolamento approvato. È retta da un massaro e due deputati che raramente cambiano. Non hanno redditi sicuri. Le entrate e le uscite delle elemosine sono riportate in un registro e sono calcolate ogni anno con la presenza stessa del rettore».
L’altare, nei primi anni del 1600, ha due effetti (terreni) affittati - sono livelli ereditari perpetui poiché ne risulta il pagamento ancora alla fine del ’700 - agli eredi di Giovanni Battista Maggi di 512 lire, del 1609, e agli eredi di Giovanni Battista Sina di Zone di 426 lire, del 1618 che rendono il 5%[2].
Nella relazione che il parroco Ludovico Guerini consegna al vescovo nel 1684 si dice che «la Scuola del Sant.mo Sacram.o ha obligo di messe cinq la settimana quali si celebrano dal R. sig.r D. Maria Almici suo capellano».
L’altare, inoltre affitta, nel 1699, 10 appezzamenti di terreno del valore complessivo di 5798 lire e un soldo[3]. A Collepiano la Scuola possiede anche un cortivo[4].
Alla fine del XVIII[5] secolo l’altare del Santissimo Sacramento ha attivi 49 censi per il valore di 22965 lire che rendono 900 lire e 15 soldi.
Sebbene non esaustiva, la tabella che segue è indicativa del notevole aumento delle disposizioni testamentarie a favore degli altari durante il XVIII secolo.
1500 - 1700 - il capitale degli altari
Rosario | +/-% | Sacramento | +/-% | |||||
fine 1500 | fine 1600 | fine 1700 | fine 1500 | fine 1600 | fine 1700 | |||
messe | - | 3495 | 3495 | 0 | ?1 | 5860 | 6160 | +105 |
Juspatronato | - | 3500* | 10500* | +300 | - | - | - | 0 |
terreni | ? | 2687 | 2687** | 0 | ? | 5798 | 5798** | 0 |
censi | - | 5700 | 24106 | +423 | - | 1279 | 22665 | +1772 |
15382 | 40788 | +265 | 12937 | 34623 | +268 |
1 Offerte volontarie dei 140 congregati
* 2050 lire per messe e 1450 per paramenti. Nel 1700 è rinnovato due volte.
** Manca il censimento dei beni delle Scuole alla fine del XVIII secolo: nell’estimo del 1785 la Scuola del Rosario denuncia un solo appezzamento di 10 tavole.
Tra il 1746 e il 1749, su 34 atti del giovane notaio Giovanni Battista Ghitti di Alessandro[6], compaiono a favore dei due altari ben 11 operazioni. Per l’altare del Rosario vi erano 2 riscossioni di livelli non pagati (su due censi di 100 lire al 4½%), una liberazione (risoluzione del contratto dietro pagamento del capitale e interessi) da un censo di 100 lire e un nuovo censo di pari valore. Per l’altare del Santissimo Sacramento si costituiscono 4 nuovi censi per 3046 lire (di cui uno di 2471 lire) e ne sono liberati 3 del valore di 2750 lire (uno di 2300 lire)[7].
La dotazione degli altari era comunque superiore a quella attestata dai pochi documenti ufficiali. Ne è testimonianza l’estratto di un testamento[8] - che non risulta registrato nelle dotazioni degli altari - in cui Francesca Bontempi q. Tommaso lascia tutti i suoi beni all’altare del Santissimo Sacramento.
L’altare delle del Santissimo Sacramento è interamente a stucco con decorazioni – nel paliotto, nel gradino e nelle quattro colonne che sostengono il monumentale timpano - che simulano il marmo screziato di varie sfumature di grigio scuro. Ai lati delle colonne vi sono due statue, pure in gesso, con le allegorie della Virtù cardinale della Giustizia (a sinistra) e della Virtù teologale della Carità.
Nella nicchia centrale vi è la statua del Cristo, ma la pala originaria è quella di Pietro Maria Bagnatore [1545 ca-1628] e raffigura Cristo risorto con angeli che reggono i simboli della Passione, olio su tela di cm. 200 x 115 circa.
Questa è la scheda di Fiorella Frisoni relativa a questa pala[9].
Il dipinto, conservato in una sala della canonica, proviene quasi sicuramente dalla primitiva parrocchiale. Attribuito tradizionalmente a Pietro Marone, nel 1964 è stato inserito da Pier Virgilio Begni Redona, in un saggio dedicato alla pittura manieristica bresciana, nell’elenco delle opere del Marone. Ritengo da tempo che la bella tela vada restituita al pittore orceano Pietro Maria Bagnatore, presto emigrato per lavorare presso i Gonzaga di Novellara, dapprima a Roma, e in seguito in Emilia, per attendere alla decorazione dei vari “casini di delizia” del ramo novellarese dei Gonzaga. Qui lavorò a fianco dell’interessante pittore locale Lelio Orsi, che gli trasmise la cultura figurativa di Roma e di Parma, e, in particolare, la conoscenza di quel fondamentale maestro padano del Cinquecento che fu Antonio Allegri, il Correggio.
Ignoriamo, per il momento, come e per volere di chi la finissima, piccola pala, possa essere arrivata a Marone, e nemmeno le ricerche archivistiche condotte da Roberto Predali in quest’occasione aiutano nell’impresa. L’artista, infatti, lavora nel bresciano prevalentemente per la Bassa, della quale è originario (cfr. L. Anelli, Gli inizi di Pietro Maria Bagnatore…, in Lelio Orsi e la cultura del suo tempo. Atti del convegno di Studi, Reggio Emilia-Novellara, 1988, Bologna, 1990, pp. 185-191) e per la Val Trompia, dove lascia numerose opere (vedi La pittura del Cinquecento in Valtrompia, catalogo della mostra a cura di C. Sabatti, Brescia, 1988, passim).
Certo è che quest’opera, nella quale il Cristo si abbandona con aggraziata malinconia alla compassione dei fedeli, rivela di appartenere, intenerita com’è in modulazioni ancora correggesche, entro tonalità dominanti di rosa e biondo, a una fase abbastanza giovanile del percorso del Bagnatore. Sembra, infatti, non del tutto dimenticata la lezione appresa dal suo maestro Lelio Orsi e i delicati trapassi cromatici rimandano al naturalismo di matrice raffaellesca proposto dal Correggio, sia pur innestato dal nostro sul robusto e un po’ arcaico classicismo di Girolamo Muziano, anch’egli di origine bresciana, che Pietro Maria ebbe sicuramente occasione di incontrare nel suo soggiorno romano. La superficie pittorica si farà, nelle opere successive, all’inizio del XVII secolo, più metallica, mentre qui, i profili degli angeli che recano i simboli della Flagellazione (la frusta e i rami spinosi) e della Crocifissione (i chiodi e le tenaglie, il martello, la lancia, la targa con l’iscrizione INRI) non si distinguono troppo dalla sostanza delle nubi che li accolgono.
Il dipinto non è, probabilmente, troppo distante da uno dei capolavori valtrumpini del pittore, L’Assunta e i santi Rocco e Sebastiano, nella chiesa della Madonna a Dosso di Marmentino, firmata e concordemente datata entro la fine del Cinquecento (S. Guerrini, in La pittura del Cinquecento cit. pp. 96, 97), dove il volto di san Rocco è segnato dalla stessa malinconica espressione che caratterizza il volto del Cristo della parrocchiale di Marone.
Il soggetto del dipinto, del quale esistono redazioni di vari autori in area reggiana e novellarese, non dovette essere insolito nella produzione del Bagnatore. Non si dimentichi che, il 17 febbraio 1566 il pittore riceveva in Roma dal conte Alfonso Gonzaga, al cui servizio sarebbe entrato di lì a poco, un acconto per un Cristo alla colonna, un soggetto non troppo dissimile da quello del dipinto in esame (E. Monducci, Regesto, in Lelio Orsi, catalogo della mostra a cura di E. Monducci e M. Pirondini, Cinisello Balsamo, Milano, 1987, pp. 280, 281).
Bibliografia: P.V.Begni Redona, La pittura manieristica, in Storia di Brescia, III, Brescia, 1964, p. 575; M. Cremonesi, Pietro Marone, pittore bresciano, tesi di laurea in Lettere moderne, Università degli Studi di Milano, a.a. 1997/1998, p. 319 (al Bagnatore, su suggerimento della scrivente).
[2] Fondo Ghitti, b. 001, doc. 029, 22 novembre 1700, Nota delle pezze di terra vendute... [affittate]. Nel 1641 la Scuola del Sacramento possiede anche, in Marone capoluogo, una casa una casa del valore di 50 lire, cui si aggiunge, nel 1698, il legato di Giacomo Guerini q. Antonio di 341 lire e 10 soldi (i legati rendono 58 lire e 7 soldi).
[3] Fondo Ghitti, b. 001, doc. 029, 22 novembre 1700, Poliza de Beni delle Reverende Scole di Marone.
[4] Ibi. La Scuola affitta nel 1698 ad Antonio Ghitti q. Giovanni Pietro di Bagnadore un appezzamento di 16 tavole che confina «a monte il cortivo di detta scola».
[5] Fondo Ghitti, b. 007, doc. 003. Vedi tabella.
[6] Fondo Ghitti, b. 005, doc. 040, 1750. Giovanni Battista [1732-1801] ha 17 anni e lavora con il padre.
[7] Sebbene gli interessi possano apparire bassi, al momento della risoluzione, se per caso frequente non fossero stati pagati regolarmente, il capitale da corrispondere era notevole: è il caso di Pietro Antonio Bontempi fu Giovanni, che il 16 agosto 1748 riscatta l’appezzamento di terra impegnato del valore di 100 lire; non avendo pagato gli interessi del 4½% per 15 anni si trova a dover restituire 170 lire e 15 soldi.
[8] Fondo Ghitti, b. 005, doc. 001, post 1700.
[9] In R. Predali, 2008.