Gli Zanotti detti Rós – 04

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Gli Zanotti detti Rós – parte quarta

Gli Zanotti detti Rós – parte quarta

 

Tre tappe fondamentali nella vita di un uomo: matrimonio, il contrarre debiti, il testamento
I Sacramenti: Battesimo, Comunione, Cresima e Matrimonio

Nascere, quando la mortalità infantile è tra il 40 e il 50 %, è un problema: a farne le spese non sono solo gli infanti, ma spesso anche le donne che muoiono di parto o per le sue conseguenze.
Se un bambino riusciva a superare il periodo perinatale (i primi 24 mesi) aveva buone possibilità di diventare adulto: le percentuali di morti tra i 3 e i 16 anni (età allora considerata la maturità) calano sensibilmente.

Da adulto, un uomo deve pensare a farsi una famiglia.
Data l’elevatissima mortalità infantile, il neonato era battezzato il giorno stesso della nascita o nei giorni immediatamente seguenti. In caso di parto difficile, se sussisteva il rischio di morte del bambino, era la stessa ostetrica (che a questa funzione era opportunamente preparata dal parroco) a somministrare il Sacramento.

La Cresima può essere amministrata solo dall'Ordinario del luogo (ovvero sia il Vescovo e il suo Vicario Generale) e, solo eccezionalmente, da sacerdoti incaricati dal vescovo di fare le sue veci. Per tal motivo, considerata la difficoltà degli spostamenti, nei secoli passati le Cresime venivano amministrate solo durante le Visite Pastorali. Queste, secondo le prescrizioni del Concilio di Trento, dovevano farsi con scadenza quinquennale, ma, per vari motivi, tale prescrizione non veniva quasi mai rispettata, e passavano a volte anche più di 10 anni fra una Visita Pastorale e l'altra.
Quando il vescovo si recava in visita a quella data parrocchia amministrava le Cresime a tutti coloro che erano stati ritenuti idonei dall'ultima Visita Pastorale, per cui si potranno trovare fra i cresimati bambini di 7 anni ma anche giovani di 17 o 20 anni. Questo avveniva un po' ovunque, ma, come si può immaginare, era più consueto nei paesi, mentre nella città, dovendo il vescovo risiedervi (ma anche questo non sempre avveniva), le cresime erano più frequenti e, quindi, si poteva rispettare una certa linea riguardo all'età.
Fino al '900 la Cresima si riceveva prima della Comunione. le cose furono invertite durante il pontificato di Pio X: nel 1910, con il decreto Quam singulari, Pio X, inoltre, chiarisce che «l’età della discrezione, tanto per la confessione quanto per la comunione, è quella in cui il bambino comincia a ragionare, cioè verso il settimo anno, o più tardi o anche prima»; a partire da questa età, pertanto, «incomincia l’obbligo di soddisfare ad ambedue i precetti della confessione e della comunione».
Tra la fine del 1500 e l’inizio del 1600, in Francia, si cominciano ad organizzare le «Feste della prima comunione»: i fanciulli tra i dodici ed i quattordici anni ricevono tutti insieme la prima comunione con un rituale solenne: processione in Chiesa, abbigliamento apposito, canti, immagini-ricordo, menù per il pranzo, etc. Si tratta di un vero e proprio avvenimento nella vita di una parrocchia e, quindi, di tutto il paese. Un avvenimento preparato intensamente dalla catechesi, preceduto da un ritiro e dalla confessione generale.
L’uso si diffonde anche in Belgio e Germania e non manca di influenzare anche altri paesi.
In Italia e Spagna, però, l’età della prima comunione rimane un po’ più bassa rispetto ai paesi dell’Europa centrale e settentrionale.

Non è una regola scritta, ma in buona parte delle famiglie è il primogenito quello che contrae matrimonio e continua il nome del casato. L'alto numero di celibi (e nubili, conviventi con i fratelli coniugati) era, principalmente, determinato dalla necessità di mantenere coeso il patrimonio famigliare, che, per quanto apparentemente ricco – come nel caso degli Zanotti che possedevano oltre 7 ettari di terreno – in realtà, spesso garantiva solo lo stretto necessario per vivere dignitosamente (le estensioni maggiori erano, per lo più, quelle di terreni a pascolo o a bosco).

La scelta della moglie era finalizzata, anche, all'accrescimento del patrimonio e si sceglievano, perciò, preferibilmente, donne residenti nello stesso Comune e di pari grado sociale, in modo tale che vi fosse un'adeguata e congrua dote.
La scelta della moglie era perciò, spesso, frutto di scelte dei due capofamiglia interessati, più che dei futuri sposi: i patriarchi, valutavano i pro e i contro e stipulavano il contratto di matrimonio.

Fino al Concilio di Trento, ma la consuetudine si prolunga per oltre un secolo dopo di esso, era il contratto matrimoniale che sanciva le nozze e il consenso effettuato davanti al sacerdote ne era solo la certificazione formale, che poteva avvenire anche anni dopo l'inizio dell'effettiva convivenza.
Due persone, socialmente, erano ritenute sposate quando l'uomo trattava pubblicamente la donna come la propria compagna di vita e madre dei propri figli.
Quindi, dal momento della stipula del contratto matrimoniale preliminare, a quello esecutivo, fino alla sua completa realizzazione (con l'assolvimento di tutte le clausole) potevano passare anni: nel frattempo i due potevano convivere e fare figli ed erano pubblicamente considerati come sposati.
Il matrimonio in chiesa, in realtà avveniva sulla porta della chiesa, dove, davanti ai testimoni, i due contraenti esprimevano la propria volontà; solo allora, con la formula di rito, il parroco registrava l'avvenuto matrimonio: «A di 27 Giugno 1641. Giovanni Pietro figlio di messer Giovanni Ghitti ha contratto matrimonio per verba de presenti con Elisabetta figlia di messer Jerolamo Zinonella parrocchiale di Marone alla presenza del M. R. Sig. Don Antonio [Giordani] Rettore sudetto presenti per testimoni Lorenzo Bontempo et Gioseffo Novale secondo l’ordine del Sacro Concilio di Trento. Le pubblicazioni furono fatte alli 12, 13, 14 dello stesso, feste di Pentecoste».

Se volevano sposarsi, gli altri maschi che non fossero il primogenito, in genere, aspettavano la morte del genitore e, con la loro quota testamentaria, si costituivano la propria famiglia. Coloro che volevano sposarsi quando il padre era ancora vivente avevano due strade: avere o non avere il consenso paterno.
Nel primo caso, come avviene per Bettino Guerini di Merito, potevano accedere, dietro stipula di un preciso contratto di acquisto, alla loro quota testamentaria (o parte di essa); oppure, come è per Lorenzo Ghitti di Antonio, separarsi dalla famiglia e ciò aveva numerose conseguenze negative per entrambe le parti.

Dalla pergamena n° 3[1] dell'Archivio parrocchiale veniamo a sapere che Giovanni Ghitti aveva una figlia, Maria, coniugata con Bettino Guerini, figlio di Guerino[2] q. Merito.
Il documento – nella nota dorsale classificato come «Divisio et separtio et liberatio Guerini quondam Meritii et [a] Betino eius filio» – riferisce che Guerino Guerini, figlio di Merito, cede al figlio Bettino (Benedetto) una terra in parte arativa e in parte a prato e a oliveto, situata in Marone, in contrada della Volta e una in contrada Bagnadore; lo affranca dai livelli e gli concede una somma in denaro di sei lire e sedici soldi «causa dotis Marie uxoris dicti Betini ac filie dicti Ioannis de Gittis».

I Guerini sono una famiglia che risiede quasi esclusivamente a Vesto, ma nel 1573 un ramo risiede a Marone. Oltre a Benvenuta e a Bettino, figli del defunto Guerino, gli eredi di Giovanni Maria (partita 117) hanno una bella casa in contrada del Gallo e sono proprietari di 1/12 del forno fusorio; i cugini Andrea, Giacomo, Donato, Ludovico e Michele hanno interessi analoghi nel capoluogo – ma i soli Giacomo, Michele, Andrea e Ludovico abitano a Marone, in case contigue e limitrofe al forno di cottura del calcare – producendo calce in un edificio posto nell’omonima contrada nelle vicinanze della parrocchiale in contrada di Salerelle o Albari, poi detta di Sedesella.

La richiesta di Bettino Guerini di una parte dei beni paterni prima della morte del padre «pro sua parte contingente» – tra l’altro non contestuale al matrimonio con Maria Ghitti – lo declassa nell’asse ereditario, ma gli permette di formare una nuova famiglia e di affrancarsi dall’autorità paterna.
Il suo non è un caso isolato. Nell’estimo del 1573 si trovano 10 partite[3] su 136 (7,4%) intestate a figli separati, come indicato dal [figlio] di invece che dall’usuale q. [quondam, figlio del fu]: figli che si sono separati dalla casa paterna e che hanno costituito una propria famiglia nucleare indipendente, senza attendere la morte del padre e la conseguente divisione ereditaria dei beni. Si tratta, senza dubbio, non di primogeniti, perché questi separandosi avrebbero perso la quota maggiore dell’eredità. Sono figli cadetti che si accontentano della loro parte di eredità (la cessione dei beni si formalizzerà ulteriormente nel testamento paterno con un legato).

La separazione, ancora nel XVIII secolo, è avvertita dal genitore come dolorosa proprio perché – oltre a minarne l’autorità – costituisce pur sempre un indebolimento della famiglia stessa. Nel caso di Bettino Guerini la separazione sarà accolta come penosa, ma non tale da portare all’interruzione dei rapporti familiari (interdizione) e sarà ratificata in un legato testamentario.

Lorenzo, il secondogenito di Antonio Ghitti di Bagnadore, evidentemente non è intenzionato a sottostare prima all’autorità del padre e poi a quella del fratello prete, e si separa dalla famiglia, costituendo un nucleo proprio, contestualmente al proprio matrimonio.

Il testamento di Antonio lascia intravedere una politica famigliare contraddittoria: da una parte istituisce il Fedecommesso di cui beneficiano Giovanni Pietro prete, Giovanni Battista – l’unico che può garantirgli una progenie – e Antonio prete, dall’altra lascia un consistente legato a Lorenzo figlio separato
Il fedecommesso blocca il nucleo originario dei beni (ma non tutte le proprietà) dei Bagnadore all’interno del gruppo, ma è un modo di agire incongruente con le prospettive di sviluppo famigliare, perché affida l’amministrazione dei beni a due figli preti che non gli garantiscono la continuità della famiglia e a Giovanni Battista che non avrà eredi e che, comunque, non ne ha alla data della morte del padre, e non a Lorenzo che – sebbene separato – è sposato fin dal 1691 e che nel 1708 ha già figli maschi.

Lorenzo, nel testamento del padre, ha un notevole legato, ma non può accedere al Fedecommesso che costituisce gran parte della ricchezza della famiglia. Alla morte di Antonio il sacerdote nel 1755, il Fedecommesso passa ai nipoti di Lorenzo, Giovanni Battista q. Alessandro q. Lorenzo (che ne eredita anche i beni personali che in gran parte sono, poi, ipotecati per pagarne i legati testamentari) e ai suoi cugini, i fratelli Lorenzo e Antonio Maria q. Pietro Antonio q. Lorenzo, abitanti a Venezia.
Lorenzo, il figlio separato, e con lui i suoi figli, beneficia in tutti i testamenti di legati e solo nel 1755 suo nipote Giovanni Battista, con i cugini Lorenzo e Antonio Maria, diviene il beneficiario della casa e delle proprietà dei Bagnadore. Questo ramo della famiglia è fino a questa data esterno, altro. Non a caso, nel Fondo Ghitti, sono assenti documenti che riguardano Lorenzo e la sua famiglia dal 1691 (data della separazione) al 1755.

Nell'estimo del 1785 troviamo ancora due menzioni di figli separati: «Gigola Cristoforo figlio separato di Matteo q. Cristoforo» di Ponzano e «Zeni Giuseppe figlio separato di Martino Antonio» di Marone.

Con gli anni, a partire dal XVII secolo, il assume toni più solenni: il matrimonio non è più celebrato sulla porta della chiesa, ma al suo interno; bisogna aspettare, però il XIX secolo perché si assista a qualche radicale cambiamento: progressivamente perde di peso la volontà del capofamiglia, a favore delle scelte dei figli che, pur necessitando sempre del consenso paterno, diventano maggiormente liberi nella scelta dei consorti.
Non muta sostanzialmente, però, la politica di accrescimento e salvaguardia del patrimonio famigliare: anche durante tutto l’800 rimane alto il numero di celibi e di nubili «coatti». «Coatto» è un termine che ai tempi non si usava per definire il celibato e il nubilato di alcuni membri della famiglia: era naturale che essi si «sacrificassero» per il bene dell’economia della famiglia ed era un fatto ritenuto socialmente accettabile.

I debiti

«Almeno fino alla fine del Settecento, nella provincia bresciana, i termini generici di censi e livelli designavano indifferentemente sia un prestito su pegno fondiario che un contratto di locazione di origine feudale di un qualsiasi bene immobiliare, in virtù del quale il concedente trasferiva al livellario il completo dominio - diretto e utile - oppure tratteneva per sé il dominio diretto e trasferiva solo quello utile, ottenendo in cambio il pagamento di un canone annuo, chiamato appunto livello. Nel linguaggio comune tali distinzioni giuridiche caddero ed entrambe le espressioni divennero sinonimi di fitti o rendite. Tuttavia abbiamo riscontrato, a livello locale, una distinzione nell’uso dei due termini che può aiutare ad orientarsi: mentre il vocabolo livello è usato indifferentemente per indicare oneri o utili derivanti dai prestiti, da affitti di beni immobili o da ogni altro tipo di rendita, il termine censo, invece, non seguito dall’aggettivo livellario, assumeva generalmente l’accezione di strumento creditizio»[4].

Nella società di Antico Regime contrarre censo – ovvero chiedere soldi in prestito – era, fino alla fine del 1700, una cosa normale e regolamentata dal 1569 dalla bolla Cum onus di papa Pio V: anche tra famigliari, tra padre e figlio per esempio, si usava formalizzare davanti al notaio qualunque richiesta di denaro (vedi il caso citato di Guerino Guerini fu Merito al figlio Bettino).

Il credito era lo strumento attorno a cui girava l’intera economia locale: con la cessione di un bene (in genere un appezzamento di terra) si otteneva in corrispettivo una somma di denaro. In genere si trasferiva, dal richiedente il prestito a colui che lo concedeva, il dominio utile del bene, in cambio del pagamento di un canone annuo (gli interessi) che variava, in genere dal 2,5 al 7% e che, teoricamente, rappresentava il valore di un raccolto annuo. Il dominio completo del bene, l’effettivo passaggio di proprietà, avveniva solo nel caso di manifesta impossibilità a pagare gli interessi e a restituire il capitale. Il contratto non aveva alcuna scadenza precisa e poteva essere risolto anche dopo svariate decine di anni (affrancamento), tramite la restituzione del capitale e degli interessi maturati.

Il contratto (sia il credito che il debito) poteva passare, per testamento, agli eredi: nel 1573 i figli di Giovanni Zanotti pagano (50% ciascuno) un debito livellario, probabilmente l’affitto di un terreno (contratto stipolato dal padre Giovanni), agli eredi di Tommaso Oldofredi.
Allo stesso modo – il fatto è maggiormente documentato – Lorenzo Ghitti fu Antonio (vedi in seguito, dove si tratta dei testamenti) non è erede di terreni ma di rendite: le pezze di terra che gli sono cedute non sono effettiva proprietà della famiglia Ghitti ma censi che essa riscuote e che solo dopo la morte di Antonio saranno effettivamente acquisite. Terreno arativo, vitato, e in parte limitivo sito in Pregasso in località Fontana o Colla del Bastone del valore di 900 lire; terreno arativo, vitato, olivato e in parte limitivo sito in Marone in località Paone o Scadicle o dei Termini con la metà di una stalla con fienile e corte e «bregno» del valore di 820 lire: l’atto Zeni (censo) è del 9 gennaio 1659. Il terreno diventa effettiva proprietà dei Ghitti con atto del notaio Bartolomeo Viani del 21 maggio 1708, quando Giovanni Battista Bontempi q. Giacomo di Collepiano, «per poter col pretio di essa [vendita] di sgravarsi da debiti», vende il solo terreno a Giovanni Pietro, Antonio e Giovanni Battista Ghitti per 304 lire. Si tratta dunque di una cessione datio per solutum; terreno arativo, vitato, olivato e in parte limitivo sito in Collepiano in località Stretta del valore di 210 lire; terreno arativo, vitato, olivato e in parte limitivo sito in Ariolo del valore di 400 lire, acquisito con atto Zeni del 27 ottobre 1664; terreno arativo, vitato, olivato e in parte limitivo et cornivo sito in Pregasso in località Ronco o Solta, con stalla e fienile del valore di 72 lire. Questo appezzamento è affittato a Stefano Cristini («in pagam.to ne beni all’estimo»); Terreno terreno arativo e limitivo sito in Zone in località Broli del valore di 820 lire; terreno prativo et arborivo sito in Zone in località Calusne del valore di 255 lire, acquisito con atto Tomasi del 22 gennaio 1675. Il Capitale censuario di 250 lire, di cui è debitore Pietro Berardi q. Francesco di Zone quale possessore di un fondo, il cui censo era stato fatto da Agostino Berardi; Antonio ordina che il capitale sia alienato; una casa con corte e orto in contrada della Piazza a Marone «acquistata dalla V. Scola del S.mo Ros.o» e pagata 1504 lire (è questo il terreno, venduto da Lorenzo nel 1708, dove fu costruita la nuova chiesa parrocchiale di Marone; i mobili e la «la biava», segale e miglio, che Lorenzo gli erano stati dati al momento della sua separazione dalla famiglia per un valore totale di 427 lire.

Allo stesso modo, per costituire la dote di una figlia, il genitore, se non possedeva capitali, chiedeva soldi a prestito (costituendo un censo); oppure cedeva al futuro marito (costituendo un censo) il dominio utile su appezzamento di terra: nel secondo caso il dominio diretto (l’effettiva proprietà della terra) rimaneva, come per l’intera dote, alla sposa che, in caso di premorienza del marito e del suo rientro nella casa paterna, aveva il diritto di richiedere la restituzione dell’intera dote. È il caso di Pace Maturis che nel 1745, restando vedova di Giovanni Battista Ghitti dei Bagnadore, non volendo continuare a vivere con i fratelli del defunto marito – una cognata nubile e due cognati preti – richiede la restituzione dell’intero consistente capitale dotale (mettendo in seria crisi l’economia dei Ghitti di Bagnadore) che era, per la sola parte in contanti, di 8703 lire e 9 soldi.

Costituire un censo era un contratto stipulato tra due persone che si impegnavano a mantenere i patti per sé e per i propri eredi. Durante la Dominazione napoleonica, da fatto privato il contratto di censo diviene di Diritto Pubblico, con l’istituzione del Registro delle Ipoteche: per molte famiglie è la rovina, perché i debiti non sono più trascinabili, come consuetudine, di generazione in generazione. Alla richiesta di restituzione del capitale, se non si è in grado di farlo, scatta l’escomio, lo sfratto e l’alienazione del bene.
Da strumento usuale di credito, il chiedere soldi in prestito diviene un fatto straordinario e pieno di pericoli, cui ricorrere solo in casi disperati e, quindi, ancor più rischioso.

Il testamento: un esempio

«Dal XII al XVIII secolo, il testamento è stato per ognuno il mezzo per esprimere, spesso in modo personale, i propri pensieri profondi, la propria fede religiosa, l’attaccamento alle cose, agli esseri amati, a Dio, le decisioni prese per assicurarsi la salvezza dell’anima, il riposo del corpo. […] Pertanto i testamenti sono tracce rilevanti attraverso le quali possiamo decifrare non solo un intero sistema familiare con la sua struttura gerarchica, ma anche, attraverso chi è privilegiato e chi è dimenticato, le relazioni che si ritiene di dover ricompensare in limine mortis e quelle che vengono omesse, le scelte ereditarie. Tutto questo filtra dalle carte testamentarie come una sorta di prezioso metalinguaggio»[5].

Trovandosi in punto di morte il testatore convoca sette testimoni – nel nostro caso parenti e amici – e un notaio per la stesura delle proprie ultime volontà.
Il testamento è redatto secondo una formula sedimentata: il preambolo, i legati per l’anima, i legati per i famigliari, eventuali legati a conoscenti, la definizione dell’erede universale e degli usufruttuari.

Nei testamenti settecenteschi della famiglia Ghitti di Bagnadore – se si escludono quelli di Maria Scalvinoni, moglie di Antonio, e di Antonio, sacerdote e ultimogenito maschio – è del tutto assente l’ambiente affettivo esterno alla famiglia. L’assenza di lasciti, anche di poco conto, ad amici e conoscenti lascia intendere la mancanza di legami intimi con persone esterne alla cerchia famigliare: mancano segni di riconoscenza nei confronti delle persone di Marone che per i Ghitti hanno lavorato (i massari dei vari appezzamenti di cui sono proprietari, per esempio) o con cui dovrebbero aver avuto stretti rapporti (la servitù). Vi sono, certo, i legati per i poveri ma questi rientrano nel novero della normalità nei testamenti di persone benestanti.

«Non essendo cosa più certa della morte, né cosa più incerta dell’hora di essa» il 6 marzo 1708 Antonio Ghitti «seriamente riflettendo» stende il proprio testamento «à fin che trà miei figl.li et posteri non nascha lite, ne controversia alcuna»[6]. Antonio è, al momento della stesura del testamento, «con il corpo indisposto»: l’atto è stato rogato, nella casa di Bagnadore «in una camara superiore chiamata il camarino», dal notaio Marco Tomasi di Sulzano, alla presenza dei testimoni Geronimo Zeni q. Giovanni Antonio, Pietro Antonio Rossetti q. Giovanni, Fortunato Zeni di Antonio, Giovanni Battista Zeni q. Giovanni Antonio, Matteo Guerini q. Pietro, Andrea q. Stefano Guerini e Giovanni Zeni q. Giovanni Battista.
Il testamento è aperto – con quello della figlia Elisabetta del 19 marzo 1710 – il 13 novembre 1711 dallo stesso Tomasi, «quelli prima veduti, et ben esaminati hà ritrovati esser li med.i ben cuciti, sottoscritti dà sette testij con li loro sigilli ad una per uno di cera di spagna […]».

Queste le sue disposizioni.
1) Dopo aver raccomandato la propria anima a Dio, alla Madonna, al proprio angelo custode e ai santi Antonio, Giuseppe e Gaetano[7], dispone un legato agli altari «eretti, ò che se eregessero» nella nuova chiesa parrocchiale di San Martino «per una sola volta» la somma di 7 lire piccole per ogni altare, «et più alli Altari della Beata Vergine della Rota, di S.to Pietro, et di S.to Fermo, et à quello di S.to Bernardo» uno scudo (7 lire piccole).

2) Legato per l’erigenda nuova parrocchiale di 600 lire planette (in sei rate annuali) che gli eredi verseranno «se si fabbricherà nuovam.te, et di nuova pianta», come già deciso dal Comune, entro sei anni dalla sua morte, anche se esprime dubbi sull’effettiva volontà dei maronesi di edificare una nuova parrocchiale («non vedendo risoluzione a far tal fabbrica»).
Sono questi i legati pro anima («in remedio dell’anima mia») cui, stranamente, non è associato alcun obbligo per la celebrazione di messe; questo è, invece, incorporato nella conferma dello juspatronato sull’altare del Rosario, con un ulteriore lascito di 500 scudi – i cui interessi andranno a pagare le messe – che, però, dovrà essere effettuato dall’ultimo erede maschio tra i sui tre figli beneficiari del fedecommesso o dei figli di Giovanni Battista. Nemmeno lascia denaro in beneficenza ai poveri.

3) Legato «per una sola volta» alle figlie Elisabetta, Francesca e Laura di 2500 lire a ognuna, in denari o beni immobili, a discrezione degli eredi maschi.
4) Alla figlia Francesca lascia, inoltre – solo se «nel meno danno dell’heredità […] nel caso che la medesima venisse in necessità doppo consonte» le 2500 lire – altre 600 lire in beni immobili («in tanto ben stabile») a condizione che si mantenga «casta, et honesta, et senza marito»[8].
5) Ad Antonia, altra figlia e moglie di Francesco Obici di Sale Marasino, siano date, come alle altre figlie, 2500 lire, da cui, però, dovrà essere detratta la dote[9]; ai coniugi lascia altre 500 lire.
Per le figlie Elisabetta e Laura, Antonio dispone che il capitale dotale in denaro o beni sia costituito «conforme parerà, et piacerà» agli eredi maschi. Elisabetta muore poco dopo il padre e Laura non avrà modo di sposarsi.

6) il legato a Lorenzo, «mio fig.lo separato da casa mia già anni quindici incirca[10]» è costituito da rendite su terreni (6 appezzamenti del valore di 3262 lire, dalla casa con l’orto in contrada della Piazza che era stata pagata 1504 lire e da mobili e «biava» per 427; inoltre gli dovranno essere date, dopo tre anni dalla morte del testatore, altre 500 lire (e i relativi interessi al 3% dei tre anni)[11].
La separazione tra Antonio e Lorenzo è solo in parte consensuale, perché il testatore lascia notevoli beni a Lorenzo, e, alla fine, egli non è escluso dall’asse ereditario del fedecommesso, ma è solo degradato all’ultimo posto nella successione.

7) Istituisce il fedecommesso[12]: «Item lascio, ordino, comando, et voglio, che l’infrascritti beni et case precisamente siano perpetuis temporibus usque in infinitus sottoposti al vincolo del fidecomisso particolare disensivo». È erede universale usufruttuaria la moglie Maria Scalvinoni, a condizione che essa non si risposi né abbandoni la casa di Marone e tenga presso di sé le figlie nubili. In caso contrario l’usufrutto le sarà negato e dovrà rimborsare le 400 lire che Antonio aveva dato, quale fidejussione con i Federici, al fratello Pietro Scalvinoni.

Eredi reali sono i figli Giovanni Pietro, parroco di Sale Marasino, Antonio, chierico diacono, e Giovanni Battista. I beni sono indivisi, inalienabili e «perpetuamente restino [ai] miei heredi maschij», con vincolo di fidecommesso.
Nel dettaglio i beni sono: 9 piò di terra, cortivo e case di Marone in località Bagnadore; terreni in località Grotta e Rovadine; terreno in località Prato di Ariato «con le raggion dell’acqua»: terreno sito in Marone in località Daque, con cascina, stalla e fienile; terreno in località Casello. I tre fratelli sono tenuti a mantenere unita la proprietà e a tenere presso di sé la madre e le sorelle nubili.

Se si estinguesse la linea maschile di Giovanni Battista i beni in fidecommesso passano ai discendenti di Lorenzo (mentre per i beni rimanenti è possibile «di quelli contrattare, come beni liberi»). Nel caso Lorenzo si opponesse a quest’ultima volontà del testatore «lui, suoi fig.li et successori [siano] immediatamente privi della successione […] come fusse estinta la mia linea mascolina». Antonio precisa che Lorenzo e i suoi discendenti «si aquietino, et obbediscano prontamente» alle sue disposizioni con la dovuta obbedienza pena la sua sostituzione nella successione con la Comunità di Marone (Carità Vecchia). In ogni caso, estinguendosi la linea maschile di Lorenzo i beni del fidecommesso dovranno passare, inalienabili, alla Comunità di Marone «et il tutto di quelli, che anualm.te si cavarà sia dispensato alli poveri» di Marone.
I terreni dovranno essere ben coltivati e ben mantenuti e affittati a prezzi congrui. Il parroco e i Reggenti del Comune sono garanti di questa volontà e Antonio dispone che, nella sacrestia della parrocchiale e «nella casa del consiglio del Comune», sia esposta «una tavoletta […] à chiara intelligenza di tutti per la sua puntual essecutione seguita che sarà la mia morte accio venendo il caso sappia tutti li posteri la mia volontà, et ciò faccio per aderire alla pia mente del sig.r Gio: Pietro mio padre come nel di lui testam.to».

8) «Et doppo la morte di tutti li tre suddetti miei figlioli, et heredi instituiti, et de descendenti del signor Giovanni Battista maschij voglio, et comando, che sia cavata da detta mia heredità scudi cinquecento [da dare alla Scuola del Santo Rosario, ndr] quali uniti alli altri cinque cento» lasciati da Giovanni Pietro, padre di Antonio e che questi siano immediatamente investiti e che con l’interesse ottenuto siano celebrate messe all’altare del Rosario «in rimedio dell’anima mia, et dei defonti della mia casa». Se vi fossero sacerdoti tra i discendenti di Lorenzo (suoi figli o nipoti), Lorenzo stesso sia investito dello juspatronato «perpetuis temporibus» sull’altare del Rosario.

Antonio dispone, inoltre, che vengano pagate 24 lire (una sola volta) – oltre alle 7 già lasciate – all’Altare Maggiore della parrocchiale.
Segue, infine, quindi l’elenco dei beni che Antonio lascia al di fuori del fedecommesso e le cui rendite serviranno a pagare i debiti e i legati alle figlie[13].

 

I Rós di Sopra tra 1700 e 1800

Scarica l'albero genealogico degli Zanotti Rós.

Antonio Maria [1787-1837] fu Giovanni Maria fu Bernardo sposa, nel 1810, la cugina Maria Maddalena Maffolini di Vesto. La coppia avrà 13 figli: Giovanni Maria [1811-1867] che sposa Maria Maddalena Guerini dei Mulini Nuovi e di cui non conosciamo la progenie, Marco Antonio [1813-?] che sposa Maria Giustina Guerini dei Fontane di Vesto; Andrea che muore giovane; Marta (sposa Giovanni Battista Faccoli di Sale Marasino); Bernardo [1819-?] che sposa Giustina Cristini del Tédesch; Giovanna; Maria; un altro Andrea che muore anch'esso giovane; Germana; Pietro Antonio [1827-?] che sposa Marta Guerini dei Fontane di Vesto; Maria Anna; Eugenio [1832-?] che sposa Angela Cristini del Tédesch; e Giovanna.

È Antonio Maria fu Giovanni Maria fu Bernardo e sono i suoi figli che vivono il periodo di transizione tra la società di Antico Regime e le riforme portate dalla Rivoluzione Francese, e i loro eredi generano alcuni dei più numerosi gruppi famigliari Zanotti contemporanei: con certezza quelli del Bafo, i Mesèc’, i Nai e i Nèdre, con alcuni dubbi quelli delle Bréde e quindi i Pètec’.

Il meccanismo è sempre il medesimo: dalla famiglia estesa o multipla si passa alla formazione di famiglie nucleari che, a loro volta, divengono estese o multiple. Le ragioni dell’alternarsi sono varie, ma, in generale, valgono quelle di bisogno di nuovi spazi (la casa avita diventa piccola per tutti i figli) e di autonomia economica e sociale, per il formarsi della famiglia nucleare; e, soprattutto, quelle del consolidamento e accrescimento del nuovo patrimonio, per il ritorno alla famiglia estesa o multipla.

Gli Zanotti del Bafo sono cugini degli Zanotti delle Bréde, dei Pètec’ e dei Barbù di Collepiano [testimonianza orale]. Il legame di parentela è difficilmente rintracciabile, anche perché, sempre testimonianze orali, danno quelli delle Bréde come originari di Sale Marasino; in ogni caso per quelli delle Bréde sarebbe un ritorno a casa, poiché gli Zanotti di Sale hanno origini maronesi.
Giovanni Maria delle Bréde nasce nel 1876 e Pietro dei Pètec’ nel 1871. Questi sposa la sorella di Giovanni Maria delle Bréde, Maria, per cui se tra le due famiglie vi è consanguineità, questa è piuttosto remota; certamente i figli dei due cognati sono, però, cugini.
Pietro dovrebbe essere figlio di uno Zanotti nato tra 1840 e 1850.

nascita cognome nome paternità maternità ceppo
7 febbraio 1844 Zanotti Andrea di Giovanni Battista Apollonia Turelli Rós di Sotto
30 marzo 1846 Zanotti Giovanni di Giovanni Battista Apollonia Turelli Rós di Sotto
18 luglio 1848 Zanotti Stefano di Giovanni Battista Apollonia Turelli Rós di Sotto
10 gennaio 1841 Zanotti Antonio di Giovanni Maria Maria Cristini Rós di Sotto
24 ottobre 1845 Zanotti Giovanni di Giovanni Maria Maria Cristini Rós di Sotto
10 novembre 1850 Zanotti Andrea di Bernardo Giustina Cristini Rós di Sopra

 

L’unico con i requisiti, al momento e sulla base dei dati in nostro possesso, è Andrea di Bernardo di Antonio Maria di Bernardo dei Rós di Sopra.
È evidente che la ricerca va continuata e per il momento ogni ipotesi va lasciata nel limbo.

 

Gli Zanotti del Bafo

 

 

Zanotti Pietro Antonio [14.11.1827-?] di Antonio Maria di Bernardo sposa, il 10 Novembre 1850, Marta Guerini di Giuseppe Antonio e Margherita Pè dei Fontane di Vesto. Dal loro matrimonio nascono almeno 8 figli: Barbara [1853-?], Apollonia [1856-?], Caterina [1857-?], Antonio Maria [04.01.1860-1938], Maria Maddalena [1862-?], Andrea [1863-?], Pietro Antonio [1867-?] e Giovanni Maria [1867-?].
La data di nascita di Antonio Maria di Pietro Antonio nel Libro per le Famiglie coincide con quella riportata sulla tomba del progenitore degli Zanotti del Bafo: la foto lo rappresenta come un uomo piuttosto anziano con enormi baffi, da cui il soprannome di famiglia. Egli non abita nella casa avita di Pregasso, ma in Monte di Marone.

Antonio Maria Zanotti sposa Giulia Riva [1860-1942]: sappiamo che i due ebbero più di un figlio (di cui uno infermo), ma conosciamo solo il nome di uno di essi, Andrea [1899-1976], anch’egli detto il Bafo.

Andrea sposa Elisabetta Bonetti [1895-1970] di Toline (la sorella Maria Bonetti sposa Giovanni Fenaroli Caicì, che abita anch’egli in Monte di Marone); la coppia ha 5 figli, Battista [1923-?], Giulia [1924-2010], Antonio [1926-1987], Giuseppe [1928-2015] e Giovanni [1930-2020].

(Continua…)

 

[1]  D. Omodei, Contributo alla catalogazione…; il documento in ApdM è catalogato al titolo XII/1/3. Divisio et separatio et liberatio Guerini quondam Meritii <a> Betino eius filio.

1530, agosto 25, indizione III. “In domo infrascripti Guerini, sita in terra de Marono.”

Il sig. Guerino figlio del sig. Meriti de Guerinis effettua la divisione dei suoi beni. Lascia al figlio Betino una terra in parte aratoria e in parte a prato e a oliveto, situata in Marone, in contrata de la Volta ed un'altra situata in contrata Bagnadore, lo affranca dai livelli e gli concede una somma in denaro di sei lire e sedici soldi.

In Christi nomine amen. Anno Domini a Nativitate eiusdem millesimo quingentesimo trigesimo, indictione tertia, die vigesimo quinto, mensis augusti, in domo infrascripti Guerini sita in terra de Marono; presentibus

Comino/quondam Lafran<c>hi de Gittis, Franzino quondam Antonioli Zoni ac Hieronimo quondam Christophori <de> Balditis omnibus de Marono et habitatoribus ibidem testibus idoneis, notis, rogatis ad hec specialiter vocatis et asserentibus se cognoscere infrascriptas [partes]  et me notarium infrascriptum. Ibi Guerinus quondam Meritii de Guerinis de Marono agens pro se suisque heredibus et successoribus, volens facere divisionem et partitionem omnium suorum bonorum […] a se Betinum eius filium et dare et adsignare suprascripto Betino summam contingentem parte [sua] taliter quod dictus Betinus sit tacitus et contentus et amplius non petere possit, dicto Guerino eius patri nec et aliis filiis dicti Guerini et fratribus dicti Betini et prout infra.Primo dictus Guerinus dedit ac adsignavit suprascripto Betino pro sua parte contingente dictorum bonorum suorum una petia terre aratorie prative et olivate site super territorio de Marono, contrata de la Volta, cui coheret a mane Stefanus quondam Tonni et partim Ioannes de Gittis, a meridie et a sero ingressus et a monte dictus Stefanus quondam Tonni salvis etc. Item una alia petia terre aratorie, vidate et olivate territorio ut supra contrata Bagnadore cui coheret a mane via, a meridie et a sero heredes quondam Andree de Zu<c>holis et a monte Franciscus de Cazis, salvis omnibus aliis coherentis veteribus et novis si que forent item libras sex soldos sexdecim planet promisit dictus Guerinus dare ac numerare supraditto Betino ad omnem eius requisitionem et hoc pro denariis habitis et receptis per dictum Guerinum a suprascripto Betino eius filio seu a Ioanne de Gittis causa dotis Marie uxoris dicti Betini ac filie dicti Ioannis de Gittis, et hiis omnibus dictus Betinus confessus fuit se foret contentus et satisfactus pro portione sibi contingente in ipsis bonis; reservando dotis matris dicti Betini etc. Promittens ac promisit dictus Betinus predicte parti partem et divisionem et omnia et singula suprascripta et infrascripta firmam ratam et gratam firma rata et grata ac proprio habere et tenere, attendere et observare et non contrafacere vel <contra>venire aliqua ratione vel causa de iure nec de facto, et dictus Guerinus promisit dicto Betino defendere, guarentare, auctorisare, ac desbrigare suprascriptam divisionem partis et partitionem et suprascripta bona data et adsignata ut supra, omnemque litem, questionem seu controversiam quod ipse Betinus ullo tempore[moveretur] in se suscipere et ipsam factam suis expensis sine debito terminari, pro quibus omnibus ac singulis ita servandis et perpetuo firmiter attendendis; predictus Guerinus obligavit suprascripto Betino se personaliter et omnia et singula sua bona presentia et futura pignori, considerando se ea bona precario nomine ipsius Betini possidere; renuntiando omni exceptioni non sic in omnibus suprascriptis fuisse et esse verum et omnibus statutis, consiliis, ordinibus, provisionibus et reformationibus communis et populi Brixie ac aliunde factis ac fiendis ac privilegio fori et etiam omnibus aliis legibus et iuribus sibi contra predicta incurrentibus, et insuper predictus/Guerinus liberavit et absolvit predictum Betinum eius filium ab omnibus debitis dicti Guerini eius patris ita et taliter quod dictus Betinus eius filius non teneatur aliquibus debitis dicti eius patris et hoc pacto expresso, et insuper predictus Betinus agens pro se ecc. liberavit et absolvit ac liberat et absolvit [....]. Predictum Guerinum patrem suum in omnibus prout iacet causa et occasione suprascripta, de quibus omnibus rogatus sum ego Allexius Gaia notarius infrascriptus publicum conficere instrumentum ad sapientis laudem. Ego Allexius quondam Antonii Gaie de Marono habitator/ibidem publicus imperiali auctoritate notarius hanc/cartam scripsi ad laudem sapientis.

[2] Guerino muore prima del 1573 e lascia una casa a Benvenuta sua figlia; Bettino è titolare della partita 134 nel 1573 in cui dichiara di possedere solamente una casa a Marone del valore di 20 lire – molto basso, dunque –, in contrada della Piazza.

[3]  Estimo 1573, Francesco di Giovanni di Baldassarre, Pietro di Battista di Cazzi, Giacomo Gigola di Giovanni Longo, Innocenzo di Geronimo Ghitti, Ludovico di Alessandro Ghitti, Pietro Ghitti del Fanci[ni], Andrea di Donato Guerini, Ludovico di Martino Guerini, Antonio di Bernardo Gigola, Giovanni Maria di Francesco Zeni

[4] G. Belotti, Censi e livelli: le strutture del credito fondiario in epoca veneziana, in G. Brentagni, C. Stella [a cura di], Cultura arte ed artisti in Franciacorta, Seconda biennale di Franciacorta. Atti del convegno, 11 settembre 1991, Brescia 1993.

[5]  E. Gattino, Lasciti femminili. Le ultime volontà delle donne torinesi a fine Settecento, in Quaderni di Donne & Ricerca, 23/2011, CIRSDe (Centro Interdisciplinare Ricerche e Studi delle Donne); scaricabile da http: /aperto.unito.it/bitstream/2318/784/1/Quaderno%20Gattino.pdf.

[6]  Fondo Ghitti, b. 004 doc. 004, 6 marzo 1708.

[7]  Il culto di Gaetano a Marone è testimoniato dalla pala La Sacra Famiglia di Domenico Voltolini (la cui realizzazione è successiva alla morte di Antonio), in cui il santo compare, con sant’Antonio da Padova, in adorazione della Vergine, di san Giuseppe e del Bambino.

[8]  G. Zarri, Recinti. Donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna, Bologna 2000, pp. 28-32: «A differenza della rappresentazione della società, basata fin dall’inizio del secondo millennio sulla fissazione di un ordine ternario corrispondente alle principali funzioni dell’uomo medievale – coloro che proteggono, coloro che pregano, coloro che lavorano – la rappresentazione dell’identità sociale delle donne si esaurisce in una funzione binaria: coloro che pregano e coloro che generano. Condizioni diverse da quella monastica e da quella matrimoniale vengono recepite soltanto come condizioni assimilabili a queste, sostanzialmente marginali o comunque non riconosciute come uno status proprio: le semi-religiose, le vedove. È soltanto alla fine del secolo XVI, in conseguenza della frattura religiosa e del mutamento sociale connesso con i processi di trasformazione economica e di aristocratizzazione di gran parte delle realtà statuali centralizzate della prima età moderna, che nei paesi cattolici si introduce un «terzo stato» femminile: la zitella, la cui funzione sociale è sostanzialmente identificata con l’insegnamento prima e con la beneficenza poi». Concorrono, comunque, al celibato coatto delle zitelle altri fattori, non ultima la volontà del genitore di non erodere i beni di famiglia con cessioni dotali.

[9]  È citato l’atto Viani di cui non siamo in possesso; la dote era di 2500 lire, in mobili e denaro.

[10]  Il lascito era già stato fatto, con atto Viani (mancante nel fondo Ghitti), il 5 luglio 1692.

[11]  Lorenzo non è erede di terreni ma di rendite: le pezze di terra che gli sono cedute non sono effettiva proprietà della famiglia Ghitti ma censi che essa riscuote e che solo dopo la morte di Antonio saranno effettivamente acquisite. Terreno arativo, vitato, e in parte “limitivo” sito in Pregasso in località Fontana o Colla del Bastone del valore di 900 lire; terreno arativo, vitato, olivato e in parte “limitivo” sito in Marone in località Paone o Scadicle o dei Termini con la metà di una stalla con fienile e corte e «bregno» del valore di 820 lire: l’atto Zeni (censo) è del 9 gennaio 1659. Il terreno diventa effettiva proprietà dei Ghitti con atto del notaio Bartolomeo Viani del 21 maggio 1708, quando Giovanni Battista Bontempi q. Giacomo di Collepiano, «per poter col pretio di essa [vendita] di sgravarsi da debiti», vende il solo terreno a Giovanni Pietro, Antonio e Giovanni Battista Ghitti per 304 lire. Si tratta dunque di una cessione datio per solutum; terreno arativo, vitato, olivato e in parte “limitivo” sito in Collepiano in località Stretta del valore di 210 lire; terreno arativo, vitato, olivato e in parte “limitivo” sito in Ariolo del valore di 400 lire, acquisito con atto Zeni del 27 ottobre 1664; terreno arativo, vitato, olivato e in parte “limitivo et cornivo” sito in Pregasso in località Ronco o Solta, con stalla e fienile del valore di 72 lire. Questo appezzamento è affittato a Stefano Cristini («in pagam.to ne beni all’estimo»); Terreno terreno arativo e “limitivo” sito in Zone in località Broli del valore di 820 lire; terreno prativo “et arborivo” sito in Zone in località Calusne del valore di 255 lire, acquisito con atto Tomasi del 22 gennaio 1675. Il Capitale censuario di 250 lire, di cui è debitore Pietro Berardi q. Francesco di Zone quale possessore di un fondo, il cui censo era stato fatto da Agostino Berardi; Antonio ordina che il capitale sia alienato; una casa con corte e orto in contrada della Piazza a Marone “acquistata dalla V. Scola del S.mo Ros.o” e pagata 1504 lire (è questo il terreno, venduto da Lorenzo nel 1708, dove fu costruita la nuova chiesa parrocchiale di Marone; i mobili e la «la biava», segale e miglio, che Lorenzo gli erano stati dati al momento della sua separazione dalla famiglia per un valore totale di 427 lire.

[12]  L. Garlati, La famiglia… cit. «Il passaggio dal medioevo all’età moderna non comportò profonde trasformazioni nelle strutture familiari, che rimasero in larga parte identiche a quelle sviluppatesi nei secoli precedenti. Si mantenne la distinzione tra ‘famiglia remota’, che si estendeva ad abbracciare rami differenti, e ‘prossima’, connotata da legami di parentela più stretti (Sulla consistenza del gruppo familiare che nel tempo si estende o si restringe fino a divenire nucleare cfr. M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, Bologna, 1988). L’elemento patrimoniale continuò a svolgere una funzione centrale, contribuendo al mantenimento dell’unita` familiare: patrimonium e dote conservarono la loro importanza, anche se si svilupparono altri strumenti tecnici idonei a salvaguardare i beni familiari, in modo da garantire alle generazioni future una solida base economica su cui fondare il prestigio e la rispettabilità del clan familiare. Primogenitura e fedecommesso ben risposero a tali intenti. Con la prima si avviava un processo di concentrazione del patrimonio nelle mani di un solo soggetto, il primogenito maschio, a discapito degli ultrogeniti e delle figlie femmine. Il fedecommesso, istituto diffuso tra il XVI (prima del Cinquecento l’istituto era sostanzialmente sconosciuto: M. Caravale, Fedecommesso (diritto intermedio), in ED, XVII, Milano, 1968, p. 112. Le linee generali dell’istituto sono delineate in R. Trifone, Il fedecommesso. Storia dell’istituto in Italia dal diritto romano all’inizio del secolo XVI, Roma, 1914. Si veda anche M. C. Zorzoli, Della famiglia e del suo patrimonio: riflessioni sull’uso del fedecommesso in Lombardia tra Cinque e Seicento, in Archivio Storico Lombardo, 115 (1989), pp. 91-148) e il XVIII secolo in tutta Europa, imprimeva ai beni una destinazione predeterminata: una parte del patrimonio era esclusa dalla successione e trasmessa secondo un ordine prestabilito (di solito era il primogenito il membro della generazione successiva a beneficiarne, ma si innestavano sul punto le problematiche interpretative riguardanti le regole delle possibili sostituzioni, che rendevano ancora più complesse le questioni successorie interne alla famiglia). Il fedecommesso era istituito o con testamento o con patto successorio o con un atto tra vivi quale una donazione». V. anche M. A. Visceglia, Linee per uno studio unitario dei testamenti e dei contratti matrimoniali dell’aristocrazia feudale napoletana tra fine Quattrocento e Settecento, in Mélanges de l’Ecole française de Rome. Moyen-Age, Temps modernes T. 95, N°1. 1983. pp. 418 e sgg., in: http: /www.persee.fr/web/revues/home/prescript/article/mefr_0223-5110_1983_num_95_1_2702.

[13]  Terreno in contrada del Termine; 2 pezze di terreno in contrada di Ambaroli; terreno in contrada di Inisone o Tombletto; 2 pezze terreno in contrada di Collepiano; terreno in contrada di Bregni; terreno in contrada di Cornello o Remina; terreno in contrada di Degagna; terreno in contrada di Monte di Marone; terreno in contrada di Canevali o Trainelle; terreno in contrada di Sinel; terreno in contrada di Madonna della Rota; terreno in contrada di Marze a Zone; terreno in contrada di Pacine a Zone.

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