Mappali 361, 1895 e 5288: le Ciódere.

Descrizione

Le Ciódere
Dopo la follatura il tessuto era asciugato su stenditoi chiamati Ciódere, in cui la stoffa era fissata con chiodi per tenerla tesa.
Il toponimo è, oggi, associato alla sola zona di Ponzano a Ovest della chiesa di Santa Teresa e delimitata dalla strada per Zone, ma, fino ai primi decenni del Novecento, erano numerose le aree - denominate anche Tende - usate per asciugare le coperte dopo la follatura. Nella mappa del 1808 la contrada - detta allora contrada di Ceredolo - è costituita dai mappali 351 (fabbricato), 360, 362 e 363 (orti), 364 e 365 (campi).
Come si rileva dalle fotografie storiche, vi erano Ciódere anche nei mappali 1895 e 370 (oggi 5288).
Etimologia: in dialetto bresciano Ciót = chiodo.

Le Ciódere: la storia cartografica

 

Le Ciódere di Ponzano

Dallo stabilimento Machina dei Molini di Zone le coperte erano portate a Ponzano a dorso di mulo o più spesso su un carretto e qui venivano inchiodate sulle Ciodére e poi messe nella Sulférera.
Qui nell’edificio, di proprietà attuale Guerini, la lana era garzata e le coperte erano cardate, tagliate secondo misure prestabilite e rifinite con orlatura.  A destra vi era l'edificio col crocefisso che si allungava in avanti a occupare la curva della Provinciale per Zone e recava una grande edicola con sette statue lignee della Passione di Cristo (ne rimangono tre), ad altezza di uomo: fu abbattuta per allargare la strada.

Le Ciódere: le immagini

Testimonianze

Giacomo Felappi ricorda Luigi Bertelli detto Magher, èl poèr Pèsoti, Naco de Calpià e anche el sciòr Tito: erano gli addetti alle ciodére, alla sulfèrera, a «cargà le coèrte [a caricare le coperte]». Il signor Tito, marito della maestra Guerini Antonia detta Tónia, era un tipo gioviale, che faceva scherzi a tutti noi bambini: «Arda che tè tire sö la gamba de bóca, se tè fét mia al drét [Attento, che ti tiro sù la gamba dalla bocca, se non fai il bravo bambino».

Michele Cristini precisa che l’operazione della cardatura era fatta, a Ponzano, nel grande immobile in parte ristrutturato che sta all’interno del tornante della strada provinciale per Zone e la chiesetta di Santa Teresina.
Appena dentro il cancello, al centro del tornante, c’era una grande stanza dov’era sistemato «el tribunàl» - due rulli su cui la coperta era fatta scorrere controluce per vederne eventuali errori di tessitura – che era usata anche come cardatrice. Due operai, uno dietro e uno davanti tenevano in mano una paletta ciascuno, con manico e un’assicella ricoperta di cardi del lanaiolo. Si cardavano due metri di coperta e, ultimato il lavoro, tiravano la coperta per altri due metri fino a terra e ricominciavano la cardatura e così fino all’esaurimento di tutta la pezza. Un gancio a uncino, che si inseriva nelle due ruote dentate a ingranaggio, poste agli estremi del cilindro, garantiva il fermo della coperta durante l’operazione.In questo luogo si lavorava anche al rammendo, cioè a mondà le fólade, ad opera di alcune donne specializzate nel rattoppare eventuali buchi o rotture di vario genere; si dovevano sistemare secondo il disegno di trama ed ordito i fili mancanti e cucirli in modo perfetto.

In quel di Ponzano poi avveniva anche un’altra operazione: quella della garzatura (da non confondere con la cardatura), che consisteva nello sfaldare la lana delle pecore in fili distinti, per sfaldare i bioccoli di lana.
Si usavano strumenti rudimentali, in dialetto chiamati sgargì: un’asse orizzontale con sopra tanti chiodi e, sotto e al centro, un grosso bastone da inserire fra le ginocchia per tenerla ferma, l’operaio seduto; con le mani l’addetto afferrava due tavolette di legno munite di chiodi; la lana grezza era posta sull’asse orizzontale e, ora con una tavoletta ora con l’altra ritmicamente, si premeva, tirando verso di sé la lana.
Poi furono usate garzatrici a mano più comode ed efficienti: me le ricordo bene io stesso, perché mia madre se le faceva prestare per garzare la lana dei materassi, che venivano rifatti ogni anno.
Erano in pratica come una lunga sedia rettangolare e ci si sedeva a cavalcioni, una gamba di qua e una di là; davanti erano sistemati dei grossi chiodi lucenti piegati quasi ad angolo retto e una specie di dondolo munito di chiodi, vi passava sopra: i chiodi inferiori si toccavano quasi con quelli superiori. L’operaio afferrava per un manico la parte dondolante e la spingeva in avanti e indietro, cosicché la lana, posta nel mezzo, si sfaldava tutta e cadeva per terra.
«Ne avevamo comperate ben tredici, eravamo negli anni Trenta, conclude il signor Michele, e le prestavamo pure alla gente per rifare i materassi: so che alla fin fine erano sparite quasi tutte».

Fino a qualche anno fa Rosolino Zanotti di Collepiano, in località Castello, ne usava una; andai da lui per farne la fotografia ma mi rispose che un signore di Iseo gliel’aveva sostituita con una moderna elettrica: cambio alla pari!
Sempre a Ponzano, alcune operaie erano addette al «rammendo cioè a mondà le coèrte, operazione che consisteva nel togliere eventuali nodi (i gróp) dalla loro superficie e nel fare l’orlatura, operazione nella quale eccelleva Maria Codemo, moglie di Francesco Camplani Ciflìch, detto anche Chì córagio, noto rifinitore di ruote per carretti e fondatore del Partito degli Achei, la cui tessera degli iscritti si rinnovava ogni novantanove anni e il cui motto era «Chèi che ciao, iè semper chèi [Sempre i soliti, i fortunati che fanno l’amore]».

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